GIVI Magazine - Novembre 2011

“Mi domando come facevamo a correre in certe condizioni. Era pericoloso e dovevi cadere il meno possibile per non ammazzarti. Ed io cadevo poco. Nel 1969 terzo nel mondiale con la Yamaha 350 da privatissimo e sono stato contento. Dovevo fare tutto da solo, niente meccanici, la moto smontata dentro una Citroen mezza marcia, comprata di quinta mano. Un mondo di sacrifici, ci mettevamo cinque, sei giorni per arrivare in Finlandia, ma non pesava mai”. Giuseppe Visenzi, fondatore della GIVI è stato anche un valente pilota degli anni Sessanta e Settanta. Ci ricorda con passione, i suoi trascorsi da “privato” nel mondiale velocità, una carriera che ad un certo punto si mischia con quella di produttore delle valigie da moto più vendute al mondo: oltre 10 milioni di pezzi. Sig, Visenzi, come ha cominciato a costruire i suoi accessori? “Avevo una concessionaria, i clienti mi chiedevano di modificare le moto. Piccoli interventi: un cupolino, un portapacchi, il paramotore. Mi piaceva mettere mano alle moto. Avevo un piccolo Motom 50 a undici anni e l’ho trasformato in una moto da pista: codone, cupolino e mezzi manubri. Era bello quel Motom ...”. E la prima valigia? “Siamo nel 1983. Era in plastica, costruita con la tecnica ad iniezione. Ho affrontato un sacrificio enorme per i costi, il tempo, le difficoltà del progetto. Avevo chiara la mia idea, ma doveva essere interpretata: la gestazione è stata sofferta, è durata più di un anno e tanti prototipi. Prova questo, prova quello, continue modifiche. Montavamo il tutto sulle moto e via a mangiare chilometri. Il fatto di essere a Brescia mi ha aiutato, una zona piena d’industrie, di gente che fa stampi. La prima valigia era molto bella esteticamente, ma era insufficiente come qualità, non potevo andare subito sul mercato. Le prime borse erano in plastica abs poi abbiamo cambiato i materiali con altri ben più nobili”. Ma la borsa nasce da una sua esigenza di viaggiatore di lungo corso? “Nasce da un pensiero di utilità. Ogni volta che usavo la moto non sapevo dove mettere il casco. Doveva stare in una borsa. E non solo: ci dovevo mettere il casco, anche una tuta dell’acqua, i guanti. Dopo la prima borsa, il Monokey, l’aggancio universale, un brevetto che mi ha premiato tantissimo. Ma che mi hanno anche copiato moltissimo”. Problemi con la Cina? “Gli asiatici mi hanno sempre guardato da vicino, ma abbiamo una qualità che non riescono a raggiungere. Alla fine, premia sempre la qualità, ma occorre anche un prezzo corretto, un servizio d’assistenza rapido”. Da dove arriva la vera concorrenza? “Per me, il signor Krauser è stato il maestro, ammiravo le sue borse. E sarei stato disponibile a collaborare con quest’azienda tedesca quando è morto il titolare, ma gli eredi non hanno nemmeno risposto alla mia lettera. Adesso la concorrenza arriva ancora dalla Germania e vanno di moda le valigie quadrate in lega leggera”. Anche voi pensate di allargare ulteriormente la produzione fuori dall’Italia? “Già lo facciamo, ma non tutto quello che produciamo lontano da Brescia è destinato all’Europa. Abbiamo una joint venture in Malesia e una fabbrica in Brasile. In Malesia facciamo bauletti per il mercato asiatico: è un prodotto simile a quello italiano, ma sono borse dalla minore capacità perché le moto sono piccole e non certo usate per turismo. In Malesia produciamo le A sinistra, Visenzi alla guida della Yamaha 350 sul circuito cittadino di Sanremo-Ospedaletti. La foto è tratta da Motociclismo di ottobre 1969. Faceva parte di una serie di preziose “cartoline” dedicate ai campioni della velocità e del cross. A destra, Visenzi “giovane pilota” in Cecoslovacchia, verso la metà degli Anni 60. “OGNI VOLTA CHE MI FERMAVO CON LA MOTO, NON SAPEVO DOVE METTERE IL CASCO. COSÌ MI SONO COSTRUITO UN BAULETTO. È STATA LA MIA FORTUNA, IL MIO SUCCESSO” Magazine - novembre 2011 27

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